Che ci sia un carcere a Ferrara lo sanno tuttx. Il carcere c’è e sta in via Arginone, nella zona periferica della città, circondato da campi ma per nulla invisibile. Ci si passa a fianco in auto, alle sue torrette e fili spinati, alle sue mura di cinta che separano il mondo dentro e il mondo fuori, definendo confini fisici di corpi reclusi e margini tangibili di libertà.
Ma che succede in carcere? Con questo scritto proviamo a riportare alcune notizie fuoriuscite da quelle mura, sempre filtrate dai media, cercando di ripercorrerle con un’ottica diversa, ovvero da un posizionamento contro il carcere.
Prima facciamo una breve panoramica di come si presenta l’Arginone, secondo i dati che ci sono pervenuti e che si riferiscono al 2020. La Casa circondariale “Costantino Satta” inaugurata nel 1992 come centro per misure cautelari e periodi di breve reclusione è in realtà da tempo utilizzata come centro di reclusione soprattutto per pene definitive e di media lunga durata. Ha una capienza regolamentare di 244 persone e si compone di diverse sezioni: Reparto nuovi giunti e isolamento sanitario/disciplinare, Sezione “giudicabili”, Sezione appellanti/ricorrenti, Sezione “penale” condanne definitive breve durata, Sezione “penale” condanne definitive lunga durata, Sezione “protetti”, Sezione congiunti di collaboratori di giustizia, Sezione collaboratori di giustizia, Sezione Alta Sicurezza 2, Sezione semiliberi. La sezione di condanna a lunga durata è quella che conta, per l’appunto, più persone, in media un centinaio. L’AS2, la sezione di alta sicurezza destinata a prigioniri accusati di reati con finalità di terrorismo o riconducibili ad ambienti legati a questi reati, nella pratica persone anarchiche e comuniste, è la sezione più piccola, con una media negli anni di circa 6-7 detenuti rinchiusi. La sezione si trova isolata dal resto della struttura.
Più celle, più carcere
Lo scorso agosto la Camera penale e l’Osservatorio sul carcere hanno fatto un tour dell’Arginone e dopo lodi spese per quell’estate covid free tra celle con sovraffollamento del 30% (331 detenuti su una capienza di 244 a luglio), giudicato ancora accettabile, si sono detti in allarme riguardo un progetto futuro di ampliamento. Difatti pare che il progetto di costruzione di un nuovo padiglione, lanciato già con un bando del 2012 e poi bloccato nel 2018 prima dell’inizio del cantiere, stia per essere messo in atto. Questo nuovo edificio potrà ospitare 80 detenuti (nel 2012 erano 200 i previsti) e una delle motivazioni annunciate che spingono sul progetto è la volontà di decongestionare le celle, permettendo una ridistribuzione dei detenuti in maggiori spazi. Eppure sorge spontanea una considerazione, ovvero che le celle vengono costruite per essere riempite e che una decongestione sarebbe possibile solo se il numero della popolazione carceraria rimanesse inalterato, mentre ciò non avviene. Sta nell’interesse dello Stato infatti continuare a far lavorare la sua macchina punitiva, anzi abbiamo visto con i nostri occhi come si siano moltiplicate le forme di oppressione e controllo negli ultimi mesi, di pari passo con l’aumentare di divari e ricatti sociali. Inoltre, dato che il margine di sovraffollamento è definito tollerabile fino alle 462 persone (!) ci appare ipocrita questa preoccupazione per la salute e le condizioni detentive, forse dettata dall’emergenza sanitaria (emergenza che passerà mentre le nuove celle resteranno). Al contempo l’accesso alle cure mediche rimane sempre difficile e fonte di disagio per molti, con lunghe attese per visite specialistiche ed esami. La preoccupazione dei delegati in tour invece nasce dal fatto che l’edificio verrà costruito sulle aree verdi del campo sportivo e degli orti, togliendo così spazi di socialità ed entrando ahimè in collisione con l’opera “educativa” della detenzione. Peccato, non ci sorprende. Non ci sorprende nemmeno che sia definita problematica la posizione delle nuove celle, e non la loro stessa costruzione. Insomma, se le mettevano altrove andava benissimo.
Educare a vivere in una società di merda
Vogliamo soffermarci un attimo sul fatto che alla detenzione viene attribuita un’opera “educativa” e difatti spesso si ripete, quasi per giustificarne l’esistenza, che il carcere è uno strumento per educare e rieducare, o almeno dovrebbe essere questo il suo scopo. Quali sono quindi le attività che in Arginone svolgono questa funzione educativa? Nel 2020 al primo posto troviamo il lavoro retribuito, con turni brevi che consentono a ben pochi di comprarsi un po’ di sopravvitto; si tratta per lo più di mansioni come la distribuzione del cibo e la pulizia degli spazi, lavoro all’esterno tramite convenzioni con diverse realtà associative ferraresi, e il laboratorio RAEE della cooperativa il Germoglio per lo smaltimento di grandi elettrodomestici. L’idea che il lavoro sia una forma di educazione rispecchia la mentalità capitalista della società, basata su logiche di sfruttamento al fine della produzione e del profitto. Crediamo che lavorare non renda migliori ma solo oppressx. Esistono poi una serie di attività lavorative a titolo volontario, tra cui la cura delle aree verdi e dell’orto, il laboratorio di artigianato per la produzione di piccoli oggetti, e il laboratorio di rigenerazione delle biciclette in collaborazione con il Germoglio. Infine ci sono le attività culturali o “ricreative”, come la redazione del giornale “Astrolabio”, il corso di teatro e le attività sportive, cicli di conferenze e presentazioni di libri. Insomma, in fin dei conti, a Ferrara “non si sta così male”, viene posta molta attenzione alla socialità e all’apertura verso il territorio, viene mostrato un carcere dal volto “umano” e benevolo, un carcere addirittura con impronta green, che si prodiga a intrattenere in tutti i modi i suoi detenuti. I progetti in corso dovrebbero educare e formare, correggere per favorire una maggiore integrazione e inserimento nella società. Ma quale società? Una società fondata su dominio e oppressione, in cui siamo in perenne competizione tra noi per poter sopravvivere e in cui il benessere e l’arricchimento dei pochi è strettamente legato allo sfruttamento e al mantenimento di altrx ai margini. Una società di merda che è il vero problema: educare a “starci dentro” significa educare alla sottomissione e accettazione delle dinamiche oppressive. Al tempo stesso un carcere reso più umano agli occhi delx cittadinx per bene non fa che distogliere gli occhi dalla questione centrale: l’esistenza stessa del carcere. La minaccia della reclusione, la messa in atto di una forma punitiva, viene proposta come soluzione per la “criminalità”, ovvero chi non sta alle regole imposte dallo Stato. Una garanzia di sicurezza che permette a tante altre forme di violenza di continuare indisturbate, violenze di sistema, dal capitalismo al classismo, fino al razzismo e al patriarcato, ecc. Il carcere permette in questo modo il perpetuarsi delle dinamiche in cui viviamo, garantisce una certa tranquillità e pace sociale, cosicché le vere questioni oppressive non sono mai affrontate. L’idea di un carcere sociale è qualcosa che rigettiamo. Certo, siamo consapevolx che le varie attività possono contribuire quantomeno ad alleviare il periodo di reclusione e spezzarne la monotonia, non auspichiamo la messa in atto di misure più brutali e il rincaro della violenza. Eppure sarebbe interessante immaginare percorsi di solidarietà che vadano aldilà dell’istituzione carcere, senza stringere legami di connivenza e collaborazione con chi si identifica con lo Stato, senza rafforzarne la legittimità.
Percosse e tortura: quando il carcere svela il suo vero volto
La notizia del futuro ampliamento ha avuto risonanza anche in Regione, tant’è che il consigliere regionale della Lega Bergamini si è sentito di dover prendere posizione, appoggiando il progetto a patto che venga accompagnato da un aumento dell’organico di polizia, perché di guardie e carcerieri non ce n’è mai abbastanza. Le lamentele sul duro lavoro delle guardie non mancano mai, tant’è che nel 2018 si è intrapreso un percorso volto a prendersi cura del Benessere della polizia penitenziaria, in evidente sofferenza. C’è chi dice che nella vita a volte non si ha scelta e che si è costretti a prendere qualsiasi mestiere pur di sopravvivere… Questa deresponsabilizzazione delle proprie azioni non ci appartiene, c’è chi sceglie di rubare e c’è chi sceglie di essere guardia. Nell’ultimo anno, inoltre, ci sono giunte una serie di notizie che parlano di violenze, percosse, torture sui detenuti operate nel 2017, per cui il percorso Benessere sembra ancor di più una presa in giro. Tra i protagonisti delle notizie troviamo l’ispettore Roberto Tronca e l’ex sovrintendente Geremia Casullo, accusati, e poi assolti a processo, di violenze e abuso di autorità, mentre per quanto ne sappiamo rimane ancora in corso il processo per tortura sempre a Casullo insieme all’assistente capo Massimo Vertuani, che durante una perquisizione arbitraria avrebbero menato a sangue un detenuto denudato e ammanettato. Le solite mele marce? Facile tirare in ballo in questi casi la ben nota metafora agronoma, algoritmi di probabilità e macchie su divise altrimenti immacolate. Quella della mela rimane una spiegazione semplicistica. Casi come questi sono la realtà, non la rarità, in molte carceri, e mostrano il vero volto del sistema punitivo, come a ricordarcelo sono le stragi di Modena e Santa Maria Capua Vetere nel 2020, così come chiunque ha parenti, amicx o corrispondenze in carcere sa benissimo di cosa parliamo. Minimizzare la violenza delle guardie significa banalizzarla e di conseguenza giustificare la sua presenza strutturale, e che il carcere sia un posto di merda, luogo di violenza, che nulla porta di positivo, nemmeno tramite le ore di ricreazione, lo si può intuire dalle varie espressioni di disagio dimostrate, per esempio tentativi di suicidio che nel 2019 ammontano a una ventina e più recentemente, in era covid, ancora non si sa. Ecco allora che si parla di aumentare le ore per il supporto psicologico e avere un occhio di riguardo verso la fragilità dei detenuti, in un goffo tentativo di curare un sintomo e tappare buchi creati, senza andare alla radice, alla causa, ancora una volta l’esistenza stessa del carcere.
Le carceri non sono la soluzione e nessun problema, sono parte del problema stesso. Ampliare un carcere è ampliare il problema.