Nell’era delle pandemie, del controllo biopolitico dei corpi da parte dello Stato per la salvaguardia del sistema capitalista, e dell’accelerazione del processo di controllo digitale delle nostre vite, queste settimane sono state particolarmente interessate dall’insorgere di una nuova, l’ennesima, emergenza sanitaria che, senza nessuna sorpresa, ha origine nel sistema di oppressione e sfruttamento capitalista e specista su cui si basa la nostra società.
La cosiddetta “Peste Suina Africana” ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, facendo per un attimo concorrenza al Covid-19 per il tipo di narrazione mediatica funzionale alla messa in atto di sistemi oppressivi e repressivi di contenimento del contagio, e per i conseguenti proclami dei presidenti delle Regioni coinvolte o in allerta.
Si tratta di una malattia virale che colpisce gli animali della famiglia dei suidi ed è caratterizzata da una mortalità elevatissima. E’ endemica in alcune zone, tra cui l’ Africa sub-sahariana, da cui ha origine, e dove i suoi “ospiti” naturali sono principalmente zecche e suini selvatici. In Europa, ad esserne particolarmente colpiti sono i cinghiali e i maiali. Il fenomeno interessa particolarmente gli individui selvatici o allo stato semibrado, ma suscita ovviamente di riflesso moltissima preoccupazione negli allevamenti, sia intensivi che non, i quali temono le disastrose conseguenze economiche della diffusione dell’infezione al loro interno.
La diffusione in Europa della Peste Suina Africana è determinata da diversi elementi che hanno ovviamente a che vedere con la reificazione del mondo animale a merce di scambio nel sistema specista e capitalista globale, in particolare il commercio, il traffico e import-export di animali e prodotti derivati dal loro sfruttamento, la contaminazione dei mezzi con cui viene effettuato il loro trasporto, ma anche il contatto diretto soprattutto fra cinghiali selvatici e altri suini detenuti e sfruttati all’interno degli allevamenti. E’ da considerare ulteriore fattore di diffusione anche lo sterminio dei cinghiali tramite la caccia in quanto la loro uccisione di massa e intensiva provoca l’effetto paradosso di un rapido ripopolamento da parte di nuovi individui, con la possibilità di aumentare ulteriormente le criticità connesse alla manipolazione della vita animale e degli ecosistemi a scopi antropocentrici.
Media e istituzioni non perdono tempo a rassicurare il consumatore con le antenne sempre alzate dopo due anni di politiche repressive di contenimento del Coronavirus: la Peste Suina Africana non è attualmente una zoonosi, ovvero non ha compiuto quel salto di specie, ormai divenuto famoso attraverso il Covid-19, che la renderebbe trasmissibile alla specie umana. Tuttavia questa situazione è diventata una questione di biosicurezza di prima necessità (soprattutto economica ancor prima che sanitaria) in molti comuni di diverse regioni, Liguria e Piemonte in primo luogo e dove i casi di positività sono stati riscontrati nei cinghiali selvatici, ma anche in altre dove si sta già correndo ai ripari, come l’Emilia-Romagna.
E lo Stato che fa? Tra decreti ministeriali e ordinanze regionali
Se il contatto diretto fra individui è la modalità più immediata di trasmissione della malattia, anche la via indiretta dovuta al contatto con qualsiasi oggetto contaminato dal virus, come abbigliamento, veicoli e altre attrezzature, è alla base dell’allarmismo degli allevatori e delle conseguenti misure di biosicurezza e controllo zootecnico messe in atto dalle regioni per la salvaguardia di quella nocività che è la produzione e il mercato dell’oppressione animale, nonché delle sovvenzioni statali a quegli allevatori colpiti dalla nuova emergenza sanitaria, in un panorama in cui la “tutela” non è ovviamente indirizzata alla fine dello sfruttamento animale e della terra ma al capitale. La tempestiva istituzione all’interno del cosiddetto Decreto Sostegni Ter di un fondo per interventi strutturali e funzionali in materia di biosicurezza di 15 milioni di euro per il 2022 e di un fondo per il sostegno della filiera suinicola ammontante a 35 milioni di euro per l’anno 2022 è quanto ci si aspettava che lo Stato facesse, e va esattamente in questa direzione. Non ce ne stupiamo.
E’ di qualche giorno fa la notizia delle disposizioni del Ministero della Salute, d’intesa con il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali, valide per i prossimi 6 mesi, e recepite dalla Regione Liguria tramite l’ordinanza regionale n. 4/2022, che coinvolge 36 dei suoi comuni e prevede, fra le altre cose, lo sterminio immediato di tutti i suini presenti nelle aree indicate, a prescindere dal loro stato di salute. Non vengono nominati quelli detenuti all’interno degli allevamenti intensivi, ma si fa riferimento in particolare ai suini detenuti in allevamenti di tipo famigliare, allo stato brado o semibrado e a quelli “domestici”, compresi quelli ospitati da rifugi animalisti e sfuggiti (ci viene da dire temporaneamente , dato lo stato attuale delle cose) alla macchina dello sfruttamento.
Il nuovo documento, che segue di soli sei giorni la precedente ordinanza del 13 gennaio, tra le altre cose conferma il divieto di un certo tipo di attività venatoria, mantenendo tuttavia proprio la caccia di selezione al cinghiale. Non che abbiamo bisogno o ci aspettiamo che siano le istituzioni a spiegarci che la caccia è una gran merda in qualsiasi forma si manifesti e a vietarla di conseguenza, tuttavia non possiamo fare a meno di notare come attività intrinsecamente speciste e oppressive non vadano mai nella direzione della loro cessazione ma piuttosto verso la riforma, regolamentazione o temporanea limitazione. L’ordinanza stabilisce inoltre le regole per la ricerca e la gestione delle carcasse di suini selvatici. Per i suini, inclusi i cinghiali, detenuti in allevamenti di tipo famigliare è disposto il censimento di tutti gli stabilimenti, la macellazione immediata di tutti individui e il divieto di ripopolamento per 6 mesi. Il decreto impone regole anche per un’area entro i 10 km dai confini della zona infetta: rafforzamento della sorveglianza, regolamentazione della caccia (per l’appunto) e delle altre attività di natura agro-silvo-pastorale con l’obbiettivo di limitare qualsiasi causa di mobilità dei cinghiali selvatici, il censimento di tutti gli stabilimenti che detengono suini, e l’adozione di misure di biosicurezza rafforzate.
In tutto questo gli allevamenti intensivi non vengono presi in causa, rimanendo fuori dalle direttive di sterminio. Ci chiediamo se sia così “semplicemente” perché gli allevamenti di suini prevalenti in zona non siano di tipo intensivo, e dunque che ci si possa “permettere” di ammazzare senza batter ciglio tutti gli individui detenuti e sfruttati, sì, ma da una filiera dello sfruttamento relativamente piccola e quindi non così determinante per l’economia regionale. Cosa succederebbe invece se il virus dovesse arrivare in quelle zone in Italia dove si trovano invece i grandi allevamenti intensivi di maiali? Quali tipi di provvedimenti verrebbero presi?
In quest’ottica, l’Emilia-Romagna corre già ai ripari. Su indicazione del ministero della Sanità, il presidente Bonaccini ha emanato una ordinanza regionale contenente tra le varie indicazioni anche l’incoraggiamento ad accelerare le macellazioni di suini negli allevamenti. Quelli intensivi? Certo che no! Anche in questo caso si nominano solo quelli famigliari. Ai colossi della produzione di carne ciò che è richiesto è di intensificare e rafforzare la vigilanza sulle movimentazioni degli animali nonché la verifica delle condizioni di biosicurezza.
D’altronde è abbastanza evidente e scontato che ogni manovra istituzionale non possa che essere fatta per salvare l’impianto capitalista, in questo caso marcatamente nocivo e specista, di cui il sistema si nutre. Lo Stato, lo sappiamo, tutela solo i suoi interessi e gli interessi di chi contribuisce al suo sostentamento, usando e rafforzando le gerarchie su cui si basano le oppressioni che lo sorreggono.
Emergenze sanitarie ed epidemie: ne fanno le spese gli animali negli allevamenti e sono un attacco al mondo selvatico
“Abbiamo più volte evidenziato il rischio della diffusione della Peste suina africana (Psa) attraverso i cinghiali e la necessità della loro riduzione sia numerica che spaziale attraverso le attività venatorie, le azioni di controllo della legge 157/92 articolo 19 e le azioni programmabili nella rete delle aree protette. Adesso serve subito un’azione sinergica su più fronti anche con la nomina di un commissario in grado di coordinare l’attività dei prefetti e delle forze dell’ordine chiamate ad intensificare gli interventi, per tutelare e difendere gli allevamenti da questa grave minaccia che rischia di causare un gravissimo danno economico alle imprese”.
Queste le incitazioni all’approccio sbirresco di Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, che rincara così la dose: “Siamo costretti ad affrontare questa emergenza perché è mancata l’azione di prevenzione e contenimento come abbiamo ripetutamente denunciato in piazza e nelle sedi istituzionali di fronte alla moltiplicazione dei cinghiali che invadono città e campagne da nord a sud dell’Italia.”
Con questa narrazione si vorrebbe fare passare per invasione la semplice esistenza di quegli animali fuori dal controllo del sistema produttivo, ricreativo o domestico, che resistono e sopravvivono all’antropizzazione e urbanizzazione di ogni luogo della terra e ai limiti imposti dalla specie umana, la nostra invasione e colonizzazione di ogni spazio. Una retorica, quella dell’invasione, a cui siamo già costantemente espostx ogni volta che media e politicanti cercano di plasmare l’opinione pubblica attorno ad una artefatta necessità di difesa da unx presuntx nemicx esternx, oculatamente sceltx e attaccatx con la repressione perché mina all’ordine legalitario, patriarcale, capitalista, razzista e specista precostituito.
La paura della Peste Suina Africana è assolutamente assimilabile a quella suscitata dall’esplosione dei focolai di aviaria che ha colpito numerosi allevamenti in diverse zone di Italia negli scorsi mesi, e la cui narrazione mediatica ha ricalcato senza sorprese la prospettiva economica e istituzionale, che immancabilmente soprassiede all’ovvio: lo sfruttamento e l’oppressione sono insiti nel sistema capitalista. L’insorgere di epidemie virali viene spacciata per accidentalità, invece che essere affrontata per ciò che è: una condizione strutturale e imprescindibile del sistema di sfruttamento agroindustriale nell’ambito del capitalismo.
Ci raccontano la favoletta dell’evoluzione dei nuovi e sicuri sistemi di allevamento occidentale improntati al benessere animale e alla garanzia del consumatore. Tutta questa retorica sulla biosicurezza a tutela dell’eccellenza alimentare nostrana è unicamente funzionale alla normalizzazione e accettazione dello sfruttamento e dell’oppressione specista, nonché a legittimare le misure sempre più invasive, restrittive e di contenimento di tutto ciò che ancora sopravvive nel mondo selvatico e sfugge alla logica del controllo antropocentrico. Le preoccupazioni economiche suscitate dall’ennesima crisi sanitaria creata dal sistema stesso legittima l’ingerenza statale attraverso ordinanze contenitive e l’adozione di nuovi sistemi tecnologici di controllo zootecnico e biosicurezza, che non mettono ovviamente in discussione la nocività che tutto ciò rappresenta. Così ci troviamo di fronte a disposizioni ministeriali di implementazione della sicurezza dei luoghi dello sfruttamento, nonché alla caccia dell’ennesimo capro espiatorio (in questo caso animali selvatici, i cinghiali) che fanno le spese, ancora una volta, del maldestro tentativo di puntellare il sistema capitalista.
Lo sterminio di maiali e cinghiali, che ricordiamo sarebbero morti comunque essendo prigionieri negli allevamenti, rappresenta solo questo: la perdita di forti interessi economici e un problema di ordine pubblico. Sfruttamento e morte sono le uniche cose contemplate nella macchina dell’industria zootecnica.
Come anarchicx e antispecistx non siamo solo contro le assurde ordinanze di questa o quella regione per arginare l’emergenza del momento, prodotta dal sistema stesso.
Siamo contro l’oppressione e lo sfruttamento di individui creati appositamente per essere alla nostra mercé per poi essere distrutti quando non più utili alla filiera produttiva, contro lo specismo che caratterizza ogni nostra relazione con gli altri animali.
Siamo contro gli allevamenti, tutti a prescindere dalla loro natura industriale o famigliare, e siamo contro la devastazione della terra per consentire il loro proliferare.
Siamo contro le insidie subdole dalla domesticazione, strumento di controllo antropocentrico alla base di un animalismo zoofilo e qualunquista, che eleva a status privilegiato gli animali pet sopra gli altri, al prezzo di una vita di reclusione in gabbie dorate, manipolazione e repressione.
Siamo contro lo Stato, che reclude e uccide o difende con le proprie leggi e strumenti sempre più sofisticati chi lo fa per lui. E’ così nelle carceri, nei CPR, nelle caserme, nei reparti psichiatrici, così come negli allevamenti e nei mattatoi e in ogni altro luogo della repressione e dello sfruttamento.
Siamo sempre più assuefatti da stili di vita artificiali, digitalizzati e passivamente accettiamo nocività, repressione e delega. A noi gli stili di vita che ci vengono proposti e imposti e tutto ciò che è richiesto per sostenerli, tra cui ogni espressione del dominio specista, fanno schifo. Solo agendo contro le logiche capitaliste e di oppressione insite nel sistema possiamo contrapporci alla miseria che ci circonda, alla devastazione, alle nocività e andare oltre all’assurdità della società in cui viviamo.