All’interno del carcere dell’Arginone, così come in ogni altro istituto detentivo, gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno. Azioni che vengono messe in atto come segno di protesta e ribellione o come gesti di disperazione a fronte della massima privazione della libertà come strategia punitiva per il mantenimento di una illusoria pace sociale. La narrazione comune di questi atti, invece che raccontare una realtà fatta di oppressione e repressione, ci viene restituita dalla voce degli stessi oppressori, guardie e rappresentanti della polizia penitenziaria che cavalcano questi episodi per ergersi a vittime o eroi ribaltando i ruoli di potere.
I discorsi sulle condizioni psichiatriche delle persone detenute si inseriscono in questo contesto e sono strumentali a nascondere la violenza intrinseca al sistema carcerario, per legittimare e rivendicare misure sempre più stringenti di controllo e criminalizzazione all’interno di quelle mura. A questo si aggiunge il ruolo delle REMS, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che in sostituzione agli OPG svolgono un ulteriore ruolo di contenimento e repressione delle persone detenute e psichiatrizzate, ricordandoci di come carcere e psichiatria siano due istituzioni totali che vanno perfettamente a braccetto nel sistema di disciplinamento e assoggettamento degli individui che non si conformano ai dettami della società capitalista, bianca, borghese, abilista e patriarcale in cui viviamo.
Se a Ferrara tutto questo è rappresentato dall’ingombrante presenza del carcere di via Arginone, dove non è presente un reparto psichiatrico, a soli pochi chilometri dalla città, a Ficarolo (RO), è in atto il progetto sperimentale di ampliamento degli Istituti Polesani (dal cui sito leggiamo essere “centro di riabilitazione e residenza sanitaria per persone con disabilità fisiche, psichiche, sensoriali e disturbi del comportamento”) con la costruzione di una palazzina di tre piani adibiti a REMS della disponibilità di 30 posti letto, sulla base di un protocollo stipulato fra Regione Veneto e Magistratura e relativa concessione all’istituto.
Mentre questa viene vista dalle istituzioni locali come “opportunità di tanti posti di lavoro”, noi vogliamo restituire una lettura diversa di cosa sia il carcere e il suo rapporto con la psichiatria con la condivisione del seguente testo scritto dal collettivo antipsichiatrico SenzaNumero, ed estratto dall’opuscolo STRAPPI – RIFLESSIONI ANTIPSICHIATRICHE (scaricabile dal sito https://artaudpisa.noblogs.org/files/2022/03/opuscolo-collettivo-definitivo-web.pdf).
Psichiatria in carcere
Il 31 marzo 2015 viene sancita la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), che nel 1975 avevano sostituito i manicomi giudiziari, e l’apertura delle REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza). Ciò ha prevalentemente significato il passaggio di gestione dal Ministero di Giustizia, prima responsabile degli OPG, alle ASL. Un passaggio che avrebbe potuto significare, quanto meno, una misura meno custodialistica e più volta ad una funzione terapeutico-riabilitativa. Le REMS, infatti, vedono al loro interno solo ed esclusivamente personale sanitario (psichiatri, psicologi, infermieri, OSS, etc.) mentre il controllo perimetrale esterno è affidato alle Regioni e alle Province autonome attraverso specifici accordi con le Prefetture che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture al fine di garantirne gli standard di sicurezza. Va da sé che, a colpo d’occhio, tra sbarre ai balconi e entrate sorvegliate da metal detector, queste strutture ricordano piccole galere. Un esempio, tra i tanti, Castiglione delle Stiviere prima OPG e, ad oggi, REMS. Nulla è cambiato dal punto di vista strutturale e, inoltre, nonostante il numero di posti disponibili per ciascuna struttura non debba essere superiore a 20 (per evitare di assomigliare troppo, nella gestione, a dei manicomi) a Castiglione delle Stiviere, a fine 2020, c’erano ben 158 persone! Ma a chi sono destinate le REMS? Sono destinate ai cosiddetti “folli rei” cioè a chi, pur avendo commesso un reato, è stato dichiarato parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al momento dell’atto; la posizione giuridica della persona lì internata può essere o quella di aver ricevuto dal giudice una misura di sicurezza provvisoria, in attesa della fine del processo, oppure “definitiva” (cioè che abbia avuto una sentenza di condanna definitiva). Queste persone dovrebbero essere “accompagnate” nel loro percorso terapeutico individuale verso la presa in carico dei servizi territoriali, in una logica curativo-riabilitativa che li veda fuori da quei circuiti, entro un arco di tempo molto variabile e impreciso, pronti per il rientro in società… Molto ci sarebbe da dire ancora su come in realtà funzionino questi posti e i loro progetti riabilitativi, ma questo scritto vuole parlare, più in particolare, della psichiatrizzazione all’interno delle carceri. Cioè di tutte quelle persone che non hanno accesso alle REMS, per mancanza di posti o perché “rei folli”, cioè la loro “malattia mentale” si è manifestata nel corso della detenzione.
Pensiamo che il carcere sia una delle manifestazioni più palesi della infondatezza della definizione scientifica di “malattia mentale”. Immaginiamo per esempio, per chi non ne abbia esperienza diretta, il momento di un primo ingresso all’interno del sistema carcerario: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le fragilità e le problematiche individuali e relazionali, la precarietà dei rapporti affettivi, l’assimilazione coatta di quell’insieme di norme che governano ogni aspetto di vita quotidiana e che possono portare ad un annichilimento della personalità e dei valori che erano propri prima dell’ingresso in carcere. Gli addetti ai lavori denominano con “sindrome da prigionizzazione” le profonde difficoltà, l’alienazione, la sofferenza che tutto ciò può comportare. L’ambiente carcerario è terribilmente nocivo soprattutto per coloro che sono sforniti di strumenti adeguati a reagire al contesto di privazione della libertà personale. Persino l’essere in prossimità alla scarcerazione può determinare una serie di preoccupazioni e ansie legate al reinserimento all’interno della società così detta “libera”.
Ma se riconosciamo come vero quanto sopra descritto, ci chiediamo: come è giustificabile la visione organicista della psichiatria insita nella definizione di “malattia mentale”? Come è possibile non vedere quanto invece sia l’ambiente, le (squalificate) relazioni, l’assenza di affettività a determinare quelle reazioni (forse invece davvero sane) di “non adattamento”, di “rifiuto al conformarsi”, di chiusura in sé stessi o di fuga?
Come “fughe”, in fondo, sono spesso i numerosi suicidi che all’interno delle patrie galere aumentano di anno in anno in modo esponenziale. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2016 i suicidi tra la popolazione “libera” erano pari allo 0,82 per 10.000 abitanti; nel 2019 in carcere 8,7 ogni 10.000. A dicembre 2020 in carcere si sono suicidate ben 55 persone, per non parlare dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo. E partiamo proprio da questo dato per provare a guardare oltre le spesse mura perimetrali di un carcere oggi, a circa due anni dalla pandemia (che preferiremmo chiamare sindemia).
Conosciamo bene il devastante impatto che questo periodo ha portato alle nostre vite. Ma sappiamo anche qualcosa di quanto accaduto all’interno delle carceri: la consapevolezza delle persone detenute del disinteresse delle istituzioni nei loro confronti e, già in tempi precedenti al manifestarsi del Covid-19, della sciatteria del servizio sanitario penitenziario hanno fatto sì che la rabbia esplodesse. E solo quella rabbia, punita con morti, mattanze e vendette anche a freddo, ha determinato che, obtorto collo, ci si è dovuti accorgere delle circa 61.000 persone che, dentro le galere, rischiavano la vita e la loro salute. La miccia, per l’esplosione di quella rabbia, è stata l’unica decisione di “prevenzione della salute” assunta dallo Stato: la chiusura dei colloqui con i loro familiari. A questa ha fatto seguito la totale blindatura del carcere all’ingresso di tutte le persone che non fossero personale lavorativo. Niente più di quel già poco che c’era: nessun lavoro, nessun corso di formazione o scuola, nessuna attività. Le carceri sono diventate dei fortini, al cui interno tutto era possibile. Quel po’ di trasparenza che c’era prima dell’emergenza sanitaria ha ceduto il posto ad un’opacizzazione totale. Prova ne è il tempo che è passato prima che venisse alla luce quanto accaduto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una delle seguenti misure preventive adottate (e ancora vigente) è stato l’isolamento sanitario sia per chi entra in carcere dall’esterno (ovviamente detenuto/a) sia per chi presenta sintomi da Covid-19.
L’isolamento è sempre stata una delle misure punitive più adottate in carcere e si realizza con la separazione dalle altre persone detenute. Le celle predisposte per questo regime detentivo mancano, a volte, persino dei materassi, coperte, lenzuola. Sono presenti solo un letto, un tavolo e uno sgabello fissati al pavimento, un mobiletto per i pochi effetti personali concessi. Assente, molto spesso, anche la televisione. In molti casi il bagno è visibile dallo spioncino o con telecamere a circuito chiuso. Capita che non ci siano vetri alle finestre né alcuna forma di riscaldamento. In genere anche le aree esterne, dove si passano le ore d’aria, sono le peggiori dell’istituto perché piccole e spesso coperte da reti. Stare in quella condizione può essere causa di danni fisici e psichici enormi. Effetti ricorrenti sono la sociofobia, gli attacchi di panico, difficoltà nell’interagire, ansia, disturbi del sonno, disfunzioni cognitive, letargia, depressione, rabbia, allucinazione, automutilazione, comportamento suicida e molti altri effetti. E molto spesso questi effetti proseguono anche una volta finito il periodo di isolamento. Ora, l’isolamento previsto per la prevenzione della salute (di circa 14 giorni) non comporta limitazioni così vessatorie, ma comunque si è soli/e con se stessi/e, con la paura della malattia e delle sue conseguenze, senza uno scambio relazionale di fiducia, senza un affetto, all’interno di un posto che, per usare un eufemismo, è ostile. Insomma questi ultimi 2 anni dentro le carceri (come, anche se in misura diversa, fuori le galere) hanno drasticamente peggiorato le condizioni di vita quotidiana, fisiche ed emotive. La stampa, quella poca che si interessa all’argomento carcere, spesso riporta di situazioni allo stremo e della quantità, sempre più in aumento, di persone detenute che manifestano disagi “psichici e psichiatrici” in quasi tutte le galere d’Italia. Le testimonianze sono (a parte alcuni pochi casi che risaltano alla cronaca) portate dalle guardie penitenziarie che non perdono occasione per avanzare le loro rivendicazioni di categoria, denunciando aggressioni su aggressioni da parte delle persone detenute portatrici di “disagio psichico”.
La disponibilità di posti all’interno delle REMS è limitata per le ragioni sopra riportate e c’è una lunga lista di attesa. Al 30 novembre 2020 si segnalano 175 persone (di cui il 31% in attesa in un istituto penitenziario) che attendono di essere inserite all’interno di quelle strutture (nel 2019, alla stessa data, 92). Persone che nel frattempo restano in carcere nonostante, a seguito della sentenza 99/2019 della Consulta, sia prevista la possibilità che il giudice possa disporre che la persona, che durante la detenzione manifesti una “grave malattia di tipo psichico”, venga curata fuori dal carcere e quindi concederle (anche quando la pena residua sia superiore a 4 anni) la misura alternativa della detenzione “umanitaria” o in “deroga”, come già previsto per le persone detenute con gravi malattie fisiche.
E allora cosa sta accadendo all’interno dell’inferno degli istituti penitenziari? Intanto dobbiamo sapere che i farmaci più profusi e, soprattutto, gli unici sempre disponibili sono gli psicofarmaci. Chiunque può avere la sua, anche abbondante, dose quanto meno serale di “terapia”. Avere persone docili e dormienti è utile ad una gestione che punta alla riduzione ai minimi termini del conflitto. Poco importa se chi uscirà un giorno da quelle mura sarà un farmaco-dipendente per il resto della sua vita. Inoltre si stanno organizzando e implementando delle sezioni speciali dette “Articolazioni per la salute mentale”. Di seguito alcuni stralci di quanto riportato nel XVII Rapporto dell’associazione Antigone a proposito di quei reparti ed, in particolare, all’interno della Casa Circondariale delle Vallette (TO). “…Tali reparti sono destinati a condannati o internati che sviluppino una patologia psichiatrica durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente, e si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. Molto spesso infatti, l’approccio terapeutico nelle sezioni di osservazione si limita al contenimento del detenuto, spesso in acuzie, e alla somministrazione della terapia farmacologica, dando priorità alle ragioni di ordine e sicurezza, come dimostrato dalla presenza in alcuni di questi reparti delle cosiddette celle lisce. Per comprendere più a fondo la questione relativa alle articolazioni per la salute mentale, prendiamo in esame proprio la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, nello specifico il reparto “Sestante”. Lo stesso rappresenta il centro di riferimento regionale per la cura delle più gravi malattie mentali manifestate dai detenuti, ed è anche uno dei centri di riferimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale.
Il reparto è suddiviso a sua volta in due sezioni: la Sezione VII, reparto osservazione, in cui vengono ristretti i soggetti in acuzie, sottoposti a videosorveglianza in maniera continuativa, e la Sezione VIII, reparto trattamento, per soggetti che vengono valutati idonei a intraprendere un percorso terapeutico. Come riportato dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, a seguito di una visita effettuata nel 2018, le criticità più evidenti vengono riscontrate soprattutto nella sezione VII: nonostante nasca come luogo in cui debbano essere ristretti soggetti nella fase più acuta dunque soggetti che avrebbero maggiore bisogno di cure, viene segnalata la totale mancanza di qualsiasi progetto terapeutico e l’esclusione di attività che consentano qualsiasi forma di socialità. I detenuti si trovano ristretti in celle singole per la quasi totalità della giornata. In questi casi, la tutela alle necessità specifiche di tali soggetti, sembra in continuo conflitto tra modalità di isolamento e un trattamento di cura delle problematiche di salute mentale. A riprova di ciò, l’elemento di maggiore criticità viene riscontrato è rappresentato dalla presenza di una cella liscia, la stanza 150, che manca di qualsiasi elemento di arredo, televisore compreso, con servizio igienico alla turca a vista e senza lavabo. Un altro dato allarmante che viene riportato dal Garante è rappresentato dal registro degli accessi in cella liscia: nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni. Le condizioni strutturali generali del reparto, inoltre, risultano anch’esse particolarmente scadenti: tutte le camere presentato necessità di interventi di ristrutturazione; viene denunciata sporcizia diffusa, tracce di muffa, materassi scaduti e servizi igienici a vista in tutte le celle.
L’unico elemento di positività è rappresentato dall’assistenza psicologica e psichiatrica che viene garantita quotidianamente dalle 8:00 alle 20:00. La sezione VIII, o reparto trattamento, presenta senza dubbio delle
condizioni complessivamente migliori. Le camere sono in buone condizioni per quanto riguarda l’arredamento e la manutenzione e i bagni sono separati. Inoltre, all’interno della sezione vi è una sala biblioteca, una stanza per l’attività trattamentale e un ambulatorio per percorsi congiunti con psicologi, psichiatri ed educatori…”.
Insomma morto un OPG se ne fa un altro. E il sistema manicomiale esce ed entra sempre da porte e finestre blindate.