Il carcere di Via Arginone

Perché siamo contro tutte le carceri

A Ferrara il carcere si trova in via dell’Arginone, dopo che negli anni novanta furono chiuse le vecchie carceri di via Piangipane. È intitolato a Costantino Satta, un carceriere ucciso proprio nel carcere di via Piangipane nel ’45, durante un’azione partigiana per liberare detenuti antifascisti.

Al suo interno sono dentenute circa 340 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 244, suddivise nelle varie sezioni presenti: cinque sezioni di media sicurezza (“comuni”), una sezione collaboratori di giustizia (Sezione C), una sezione congiunti dei collaborati di giustizia (Sezione Z), una sezione “protetti” e una sezione AS2. Quest’ultima, allestita meno di dieci anni fa, è destinata agli anarchici e ai sovversi, a coloro che vengono arrestati, condannati e rinchiusi per avere portato avanti le lotte, mettendo in pratica le loro – le nostre – idee. Al momento sono 6 i compagni rinchiusi.

Nel carcere di Ferrara, come in tutte le carcere di questo mondo, avvengono violenze e ne scaturiscono rivolte e gesta di protesta. Attraverso questa pagina ci preme dare visibilità e spazio alle notizie che trapelano da quelle mura, per rompere quel silenzio e quel’isolamento che il carcere necessita. Per dare una voce e un sostegno alle rivolte dei detenuti contro l’infamità del carcere e dei carcerieri.

Mettiamo fin da subito le mani avanti: la prospettiva che vuole l’abolizione del carcere, intendendo con questo la sua trasformazione in una serie di costrizione alternative più “umane”, “moderne”, “dignitose”, non è la nostra. Detto questo è chiaro che la possibilità di scontare una pena ai domiciliari o con una misura alternativa, come ad esempio i cosiddetti lavori socialmente utili, piuttosto che vedersi rinchiusx, è qualcosa che ci si augura sempre quando una persona a noi cara viene arrestata. Non per questo avremo meno in odio tanto il carcere, i carcerieri e il mondo che li necessita. Questo perché ci sembra evidente che il carcere non è solo la casa circondariale tout-court, bensì molto di più: un’idea di mondo; un’idea di mondo che abbiamo in odio.

Si pensa comunemente che le prigioni siano sempre esistite ma non è così. È tra il settecento e l’ottocento che “al posto delle strazianti pene corporali, si sceglie la soluzione detentiva” e come scrive Michel Foucault in Sorvegliare e punire: “In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso”. Le prigioni sono dunque comparse nella storia per riformare un sistema precedente ben più brutale e, soprattutto, per favorire e sostenere i cambiamenti che la rivoluzione industriale nascente stava per apportare in modo massiccio nelle città. Servivano lavoratorx disciplinatx e addomesticabili alle rigide esigenze in termine di spazi e di tempi che le macchine imponevano, e bisognava garantire gli interessi e gli investimenti di chi deteneva il capitale. Detto altrimenti, bisognava difendere la proprietà privata dei pochi facoltosi a fronte dellx tantx sfruttatx. Oggi il carcere è una delle tante strutture del controllo sociale e, in simbiosi con la società e trasformandosi al passo con essa, assolve diversi scopi: punire chi delinque isolandolx dalla società, riabilitare almeno formalmente alcunx di questx per restituirlx ad una regolata vita sociale, agitare lo spettro dell’esclusione per lx onestx cittadinx, lavoratorx e consumatorx. E di pari passo con la società è anche la dematerializzazione del carcere e la sua diffusione nel territorio, ovvero il riadattamento moderno della stessa identica funzione per consentire un maggiore controllo sociale a costi più bassi. I braccialetti elettronici così come i domiciliari utilizzano le abitazioni come succursali delle galere; le telecamere, i sensori RFID, i GPS rendono le città stesse prigioni. Al carcere ottocentesco si sono poi affiancate forme alternative e “innovative” di detenzione, quali centri di accoglienza per migranti “clandestinx”, comunità terapeutiche per le persone con dipendenze, comunità di reinserimento per detenutix e REMS. Queste sono di fatto tutte forme non-carcerarie di imprigionamento, la cui funzione rimane la stessa: isolare e controllare le persone marginalizzate o escluse dal sistema produttivo, fornendo eventualmente una manodopera di riserva.

Per questo pensiamo che abolire il carcere senza mettere in discussione il sistema che lo necessita è unicamente una sua diluizione, nonché una sua diffusione ulteriore nel territorio e nel vivere quotidiano.

Ha ragione chi dice che a questo mondo c’è sempre più violenza. Di fatto viviamo in una società basata sulla violenza, ma non quella della piccola criminalità, dei ladri, dei borseggiatori, degli spaccini, come spesso è sottinteso in questa affermazione. La violenza strutturale, quella che soggiace il sistema produttivo ed economico delle società occidentali e del sistema capitalista, permettendone il funzionamento, quella è la reale violenza che non si arresta e che trova sempre meno opposizione al suo dilagare, nella misura in cui la società capitalista è arrivata ad imporsi non più come “il migliore dei mondi possibili”, ma come l’unico che ci è consentito di immaginare.

Pensiamo anche che quanto ritenuto “crimine” non sia una “malattia curabile” di alcuni individui (la cui cura sarebbe appunto la pena) ma bensì la malattia incurabile della società del capitale, con il suo portato storico-culturale di razzismo, classismo ed eterosessismo misogino (e specismo!).

La legge è ed è stata ciò che regola e indirizza i rapporti di sfruttamento e oppressione su cui è basata la società, garantendone il mantenimento. Ordina al tempo stesso le relazioni sociali, assegnando a ciascunx un ruolo in funzione dei propri interessi, costituendo la principale mediazione tra tutte le persone, isolandole le une dalle altre e nel mentre le riunisce in rapporti giuridici. La legge si esercita per il tramite della violenza o della minaccia di violenza, senza la quale sarebbe lettera morta, concordando allo Stato il monopolio sul suo uso. La reclusione è una parte importante di questa violenza. Le campagne mediatiche contro le emergenze e i nemici della società (oggi la mafia o il terrorismo, domani la droga e la microcriminalità, dopodomani i femminicidi,…) sono, tanto quanto il dibattito parlamentare, la farsa spettacolarizzata per far credere allx cittadinx di essere partecipi nelle strategie repressive adottate dallo Stato, su cui però non sono mai statx interrogatx. In questo senso il “mostro” è la figura che esemplifica nel modo più grossolano la mistificazione associata alla presunta necessità delle prigioni. L’attenzione riservata al caso particolare e al fatto eccezionale viene dunque impiegata per mascherare la caratteristica sostanziale del carcere: una struttura creata per contenere e annullare il confitito sociale e spazzare sotto il tappeto le contraddizioni sociali insite nel sistema.

Pensiamo ci sia una domanda fondamentale che è sempre stata elusa da tutti i vari libri, sociologi, criminologi ed esperti di ogni sorta: se il carcere significa punizione, castigo, pena, evidentemente fa riferimento alla trasgressione di una determinata regola. Ora, la trasgressione della regola rinvia a sua volta al concetto stesso di regola. Ma chi decide, e come, le regole della società? Questa è la questione che i vari operatori del settore, gli esperti non affrontano mai. Questa è la questione che contiene tutte le altre e che se sviluppata fino in fondo rischia di far crollare tutto l’edificio sociale e con esso le sue prigioni. A noi è palese che tutte le chiacchiere che vengono raccontate sul “potere del cittadino”, sulla “partecipazione diretta”, sulla “democrazia”, si rivelano sempre di più per quello che in sostanza sono: menzogne. A decidere in una società basata sullo Stato, sulla divisione in classi e sulla proprietà è una ristretta minoranza di individui che impone, attraverso il potere esecutivo, le loro regole. Ora, regole, accordi e legge, non sono sinonimi. La legge non è una regola, è una coercizione, imposta per di più da una ristretta minoranza. Se è possibile concepire un modo completamente diverso per definire le regole, o, detto diversamente, per prendere degli accordi, oltre all’imposizione, come noi lo vediamo, vuol dire che non c’è quindi coincidenza fra accordo e legge. La questione diventa allora: come può un individuo o un insieme di individui essere punito in base a regole coercitive, quindi leggi, che non ha mai sottoscritto, che non ha mai liberamente accettato, che non ha mai stabilito? Anche questa è una domanda estremamente semplice ma che non viene mai posta.

Esiste allora il dominio, l’essere direttx da altri, e quindi lo sfruttamento. A volte sembra la gente se lo sia dimenticato. Proprio perché questa società non si fonda sul libero accordo, quest’ultimo si sviluppa solamente all’interno di piccoli gruppi dove esiste la consapevolezza della possibilità di avere rapporti di reciprocità e di libertà, quindi senza forme coercitive. Ma al di là di piccoli gruppi che in modo magari conflittuale rispetto alla società cercano di vivere in questo modo, all’interno di questo ordine delle cose non esiste una simile possibilità per le persone, poiché appunto viviamo in una società fondata sulla divisione in classi, sul dominio e sullo Stato, che di questa divisione in classi e di questo dominio è al tempo stesso il prodotto e il garante. Allora si capirà perché e per chi esistono le prigioni. Ed é proprio partendo da questa riflessione, dalla messa in discussione di chi decide per chi e perché, che si può cogliere il problema della punizione, e quindi il problema del diritto e, più nel concreto, il problema di quel codice penale su cui i giudici fondano le loro infami sentenze che rinchiudono persone, qui come altrove, e su cui gli sbirri trovano l’autorità e la giustificazione per arrestare e reprimere, e i secondini per sorvegliare e rinchiudere, e l’assistente sociale per riportare alla calma e alla collaborazione di chi, probabilmente, semplicemente cercava di sopravvivere da esclusx dal migliore, e ormai unico, mondo possibile immaginabile.

Partendo da questa riflessione ci si può rendere conto che all’interno della presente società, il carcere è un problema insormontabile, perché il problema del “crimine”, cioè della trasgressione alle norme coercitive, è un problema fondamentalmente sociale. Per dirla diversamente, fintanto che esisteranno i ricchi e i poveri esisterà il furto, fintanto che esisterà il potere nasceranno sempre lx fuorilegge, fintanto che esisterà una cultura di odio, discriminazione e sfruttamento dell’altro da sé, esisteranno efferatezze e vendette. Rovesciando la questione, il carcere è una soluzione statale a problemi sociali e una soluzione capitalista a problemi capitalisti. La storia del carcere d’altronde si lega profondamente alla storia del capitalismo e dello Stato e quest’ultima si lega profondamente a tutte le resistenze, a tutte le lotte, a tutte le insurrezioni da parte dellx sfruttatx e spossessatx di tutto il mondo per sbarazzarsi del capitalismo, del denaro, della proprietà, della divisione in classi, dello Stato.

Siamo contro al carcere perché siamo contro ai valori, alle strutture e alle vere basi che sottostanno l’attuale società. E il carcere ne è lo specchio. Contro la mediazione politica e le pratiche recuperatrici che consentono al sistema l’amministrazione del conflitto.